La mattina del 10 settembre 2001 portai mia figlia Anita alla fermata del bus scolastico, per il primo giorno di asilo a Chapin, la scuola di New York dove aveva studiato anche la Jackie Kennedy. Un papà gentile, completo chiaro da businessman, accompagnava la sua bambina, con l’identico grembiulino e le incoraggiammo insieme a salire sul bus. Mi strinse la mano, e - da newyorkese - fece subito programmi di «playdate», giochi in comune, «Mettiamoci d’accordo, le portiamo un giorno per uno».  

Lavorava alla finanziaria Cantor Fitzgerald, tra i piani 101 e 105 del World Trade Center, Torre Nord, dove il giorno dopo, l’aereo American Airlines dirottato da Al Qaeda, lo uccise con 658 dei 960 impiegati. 
Allora credevamo che la Guerra Fredda fosse finita, lasciando posto a un’intesa internazionale con le grandi potenze e l’Onu, come nei Balcani, a sciogliere conflitti in democrazia. Credevamo che confini e scambi liberi fossero progresso, un miliardo di esseri umani, tra Cina, India e America Latina, aveva appena lasciato la fame per il benessere, nel più grande salto fuori dalla miseria che la storia ricordi. Steve Jobs era un’icona e il web speranza di democrazia e dialogo, la tecnologia non sembrava distruggere occupazione per il ceto medio, ai complotti credeva ormai solo il regista Oliver Stone. Il terzo millennio incenerì quelle speranze, nella sabbia che a lungo piovve velenosa su Manhattan, parte cemento delle orgogliose Torri, parte polvere di uomini come ad Auschwitz. Visitai a Staten Island, per questo giornale, la discarica di Fresh Kills, il nome agghiacciante presagio della brughiera dove venivano setacciate le macerie trasportate da Ground Zero, e ogni giorno le memorie riaffioravano, una tibia da esaminare al Dna, un orologio d’oro con le iniziali, lancette fermate dall’odio, una foto di vacanze, il chip di un computer. 

Per anni studiai la «guerra asimmetrica», per capire come la rivolta del fondamentalismo islamico non fosse riducibile alla «pace» in Medio Oriente, rompendomi la testa - come tanti - per capire come fossimo stati così ciechi. All’ambasciatore Robert Oakley, l’americano che più conosceva il nuovo terrorismo, chiesi prima che morisse «Se l’aspettava?», e nel suo formidabile candore Oakley rispose «Restai folgorato, e subito dopo mi dissi, Bob, come hai fatto a non vedere?». 

Rick Rescorla, veterano degli eserciti inglese e americano, sopravvissuto per miracolo alla battaglia di Ia Drang, Vietnam, 1965, quella del film di Mel Gibson «Fino all’ultimo uomo», aveva visto. Responsabile della sicurezza della finanziaria Morgan Stanley alle Torri Gemelle, dopo il primo attentato del 1993, aveva spiegato ai dirigenti che il prossimo attacco sarebbe stato aereo, Rescorla credeva a un velivolo carico di esplosivo e costringeva i colleghi, sbuffanti, a estenuanti esercitazioni su e giù per le scale. L’11 settembre Rescorla guida i 2700 lavoratori di Morgan Stanley, uno per uno, alla salvezza, rassicura al cellulare la moglie, poi - senza che il dovere glielo chieda - rientra nelle Torri a salvare sconosciuti, incoraggiandoli con antiche ballate della sua Cornovaglia al megafono. Non si ferma fino al crollo, l’hanno visto per l’ultima volta al decimo piano, tutti scappavano, lui risaliva. Sua moglie aveva ritrovato, nascoste in un cassetto, le medaglie del Vietnam, esclamando «Rick, sei un eroe e non me l’hai mai detto!» aveva rimesso da parte subito le decorazioni, mormorando «Gli eroi sono tutti morti». 

Gli eroi sono tutti morti, viviamo in un mondo senza eroi, pronto a disprezzare ogni ideale, ogni sogno, ogni sacrificio nobile nel post volgare di un troll miserabile. K., il manager papà della compagna di mia figlia, Rescorla, sono tra i tanti eroi silenziosi di quel giorno e a loro ripenso oggi, certo che, per lunga e travagliata che possa essere la stagione di guerra all’odio dell’intolleranza, le forze del bene, della ragione e della luce, alla fine, prevarranno. Riposino in pace.