«Ai vecchi tempi...» si sente borbottare nella Washington che credeva di contare e conta ogni giorno di meno, «ai vecchi tempi…» i titoli che han percorso ieri il web, e oggi sono in prima pagina, mail proibite di Hillary Clinton e tasse eluse da Donald Trump, avrebbero stroncato una candidatura, umiliato un leader, costretto un aspirante presidente alla ritirata, davanti alla famelica pattuglia di reporter, taccuini e microfoni inastati. 

 Ora invece? Basterà il rapporto degli ispettori del Dipartimento di Stato, che critica l’ex First Lady per avere usato una mail privata e non quella ufficiale del ministero, e non avere tenuto un registro accurato della corrispondenza, a costringere la Clinton a rinunciare alla corsa alla Casa Bianca? Servirà la reprimenda, estesa ad altri segretari di Stato del recente passato, su tutti il repubblicano Colin Powell, almeno a costringerla alle corde? 

 Per Donald Trump l’affondo viene dal giornale inglese The Telegraph, con una precisione di tempi che in Italia solleverebbe la sindrome del complotto «ad orologeria», e anche negli Stati Uniti alimenta siti dietrologici. Trump è accusato, con tanto di mail e di fotocopie dei documenti fiscali, di aver stornato 50 milioni di dollari (44 milioni di euro) di un investimento in debito, per eludere i controlli dell’Internal Revenue Service, Irs, il fisco Usa. Dal gangster Al Capone al vicepresidente di Nixon, Spiro Agnew, costretto alle dimissioni nel 1973 per corruzione e frode fiscale, le tasse sono state mannaia micidiale negli Usa: riusciranno a scalpare la chioma (vera? trapiantata? parrucchino? il dibattito tricologico infuria) di Trump? 

 Ai «vecchi tempi…» che giornalisti, parlamentari, docenti universitari e lobbisti evocano, non senza nostalgie, nei ristoranti bene della capitale e di New York, le rivelazioni di maggio avrebbero avuto conseguenze toste per Clinton e Trump. All’epoca del web e dei talk show, con la narrativa dei Big Data a restituirci una conversazione politica irriducibile, controversa, i riflessi potrebbero essere più modesti, a meno di nuove rivelazioni drammatiche, evasione cronica per Trump, incriminazione diretta dell’Fbi (un’inchiesta è ancora in corso) per Clinton. 

 Lo staff di Hillary insinua già che alcuni dei funzionari che han redatto il rapporto, «lavoravano per i repubblicani» (vero, altri però sono stati nominati dal presidente democratico Obama) pur di aizzare tifo partigiano. Trump ha ribadito più volte che non intende pubblicare la sua dichiarazione fiscale - rito tradizionale per i leader moderni -, titillando l’orgoglio della sua base, che detesta tasse, Irs e commercialisti. 

 Sono in corso tre guerre politiche in America, Clinton contro Trump per la Casa Bianca è la dominante, parallela a due rauchi conflitti fratricidi, con i ribelli del socialista Sanders a minacciare rivolta alla Convenzione democratica, mentre repubblicani moderati e intellettuali si ostinano - sempre più flebilmente - a contrastare Trump. Le trincee partigiane dividono i partiti tra loro e all’interno, il clima si fa brutale. Chi medita di votare Trump, non lo abbandonerà perché sconvolto dalla possibile evasione fiscale (un palazzinaro arricchito con i casinò vi suggerisce rigore fiscale?). E ben pochi democratici diserteranno il partito, solo perché Clinton ha usato un server privato, o mandato una mail chiusa da un .com anziché state.gov. 

 Non è una nobile contesa, non è un’alata campagna elettorale, se mai ve ne sono davvero state in passato. Gli americani, in maggioranza, sono disgustati da entrambi i leader, considerano il sistema marcio, piagato da cinismo, mazzette, lobby rapaci. Se i militanti rivali troveranno nei titoloni ragioni per odiare ancor di più «Hillary» o «Donald», tanti loro concittadini si sentiranno ancor più alienati dal sistema. La rabbia è, ora, troppo radicata per non spegnere, tra gli slogan dissennati, ogni dialogo raziocinante.