Nel 1336 avanti Cristo scomparve il faraone egiziano Akhenaton, celebre per aver imposto al suo antico Paese un culto monoteista, devoto ad Aton, il disco del Sole. Per meglio radicare la nuova fede il faraone fece abbattere templi ed iscrizioni sacre ai culti ancestrali, perché solo i segni della nuova religione fossero visibili. Oggi gli Stati Uniti sono squassati dalla polemica sulla rimozioni dei monumenti ai generali confederati, che si batterono spesso con coraggio e astuzia tattica per il Sud schiavista durante la Guerra Civile 1861-1865.  

A Charlottesville, in Virginia, una donna ha perso la vita, uccisa da un neonazista che difendeva la statua del più celebre generale sudista, Robert Lee. I monumenti ai leader sudisti non vennero eretti nel XIX secolo, quando ancora gli animi erano divisi e anzi si tentavano momenti di riconciliazione. Per l’anniversario della campale battaglia di Gettysburg, canuti reduci unionisti e confederati ne rivissero insieme i momenti più tragici come la suicida carica del generale Pickett. Solo più tardi, intorno al 1920, sulle piazze ridenti delle cittadine sudiste vennero elevati monumenti alle vecchie glorie militari, tanto adorate che gli anziani custodirono per anni le corde con cui le statue di bronzo venivano innalzate. Non tutti gli eroi furono celebrati allo stesso modo, a Lee, al severo Stonewall Jackson, perfino al generale Forrest, fondatore del Ku Klux Klan razzista, toccarono grandi onori, solo qualche oscura targa ricorda invece il generale William Mahone, eroe sudista alla battaglia di Petersburg, che però paga il prezzo di avere, dopo la guerra, favorito una politica di integrazione civile per gli schiavi liberati. Insomma le statue vecchie solo un secolo sono, per il vecchio Sud, memoria di una ribellione romantica, per il nuovo Sud di odio razzista.  

Come ai tempi di Akhenaton bronzo e pietra fanno politica. C’è chi vuole rimuovere a Chicago il monumento al gerarca fascista Italo Balbo, che ricorda le trasvolate atlantiche Anni Trenta, capaci allora di entusiasmare gli americani ma oggi insufficienti a coprire le responsabilità del Quadrumviro nel sanguinoso squadrismo fascista e le complicità col regime di Mussolini. Il sindaco democratico di New York medita se abbattere la statua di Colombo, dove Central Park tocca Broadway, e già l’esploratore italiano ha visto il proprio monumento abbattuto a Buenos Aires in Argentina. 

Dove fermarsi? La Turchia vuol distruggere una statua del classico filosofo cinico Diogene, morto nel 323 a.C., perché estraneo alla cultura locale, anche se nella antica Bisanzio, oggi Istanbul, ci si divise su iconoclastia e culto delle immagini, quando pregare un’icona veneranda poteva costare la vita, ai tempi dell’imperatore Leone III.  

A che punto il rispetto per la nostra sensibilità contemporanea deve prevalere sul rispetto per la cultura del passato? All’apice della tragica rivoluzione culturale cinese, le Guardie Rosse sguinzagliate da Mao contro «I 4 Vecchi» della tradizione remota, marciarono sulla Città Proibita di Pechino. Avevano devastato il Cimitero Confuciano, distrutto o incendiato templi buddisti, biblioteche ricche di manoscritti preziosi. Il premier Zhou En Lai comprese che della storica cittadella imperiale non sarebbe rimasta pietra su pietra e fece schierare l’esercito in difesa dei tesori che testimoniavano sì di una era oppressiva ma anche di glorie artistiche. 

Ai millenari Buddha di Bamyan, in Afghanistan, andò peggio, i taleban musulmani li distrussero, a cannonate e col tritolo, come idoli sacrileghi. Isis ha fatto lo stesso con le antichità che ha conquistato, minacciandole in Siria, Iraq, Libia. I protestanti cancellarono l’arte cattolica dai Paesi Bassi durante la follia del Beedelnstorm, nel XVI secolo, Stalin usò i marmi della chiesa del Salvatore a Mosca per decorare le stazioni del metro, i repubblicani bruciarono capolavori cattolici nel 1936 in Spagna (quel che resta della chiesa di Santa Maria de Cap de Aran lo ammirate ai Cloisters a New York), Pol Pot disfece l’arte cambogiana e la famiglia Rockefeller distrusse a New York un affresco del maestro Diego Rivera «troppo anticapitalista». 

Politicizzando oggi come «eroici» i busti dei confederati, facendone simbolo del nuovo razzismo, gli estremisti di destra ne rendono giusto l’abbattimento. Ma il presidente Trump sa di toccare una corda con tanti elettori quando ricorda che anche i presidenti Washington e Jefferson, celebrati fin sui dollari, possedevano schiavi come Lee. Saranno abbattuti i loro monumenti, i più sacri della capitale?  

Lo studioso Odo Marquard ci ammoniva di non trasformare la Storia in un processo e noi in Accusa e Difesa petulante di chi è venuto prima. Difendere con gelosia i diritti conquistati a prezzo di tanta sofferenza è un dovere. Evitare che il passato semini odio, come i razzisti han fatto politicizzando le statue al Sud, è saggio. Ma pretendere che il passato sia a nostra norma, spianare piramidi e Acropoli perché erette da schiavi, bruciare i codici, copiati da servi, mettere al rogo arte e cultura patriarcale è sbagliato. Se abbiamo conquiste di libertà e tolleranza lo dobbiamo a chi è venuto prima di noi, a una paziente crescita collettiva. Dobbiamo giudicare il passato con equanimità, perché presto sarà il futuro a giudicare, altero, le nostre colpe.