La giuria del Premio Nobel per la Letteratura cambia strada. Dopo il premio, strameritato, a Svetlana Aleksievic, autrice del capolavoro La guerra non ha un volto di donna (Bompiani), vince Robert Allen Zimmerman, nato a Duluth, gelida pianura del Minnesota, nel 1941, in arte Bob Dylan. 

Se la vittoria di Dario Fo per il teatro popolare, nel 1997, suscitò l’ira del critico Harold Bloom («Ridicolo!»), il successo di Dylan, nel giorno della morte di Fo, solleva lo sprezzo dello scrittore Alessandro Baricco: «Cosa c’entra Dylan con la letteratura?». La reazione negativa non va attribuita, interamente, al provincialismo di casa nostra, se anche il romanziere scozzese Irvine Welsh, autore di Trainspotting, esplode: «Scriteriato premio alla nostalgia per decrepiti hippie brontoloni». 

Un Nobel alle spalle, Salman Rushdie twitta equanime «Da Orfeo a Faiz, canzoni e poesia sono legate intimamente. Dylan è il luminoso erede di questa tradizione bardica. Grande scelta #Nobel», e coglie la novità. L’anno passato si puntò sulla «cronaca» di Aleksievic, arte luminosa che da Erodoto alle pagine di Rodolfo il Glabro sulla caduta di Costantinopoli arriva a Bernard Fall e Michael Herr sul Vietnam, quest’anno sulla canzone d’arte.  

Molti sul web citano artisti che avrebbero meritato di vincere, da Leonard Cohen con Suzanne a Lennon-McCartney, noi potremmo dire Tenco o Mogol. Ma il Nobel seleziona un nome per un’intera cultura, e in Bob Dylan la medaglia d’oro a 18 carati e il bonifico di 8 milioni di corone, 940 mila euro onorano la musica unita al testo. Sara Danius, segretaria del Nobel cita «Omero e Saffo, tradizione di “poesia per le orecchie”». 

 

Dylan se ne ride delle controversie, lo hanno accompagnato tutta la vita. Lasciando la famiglia e la quieta Duluth – «a casa mia nessuno alzava mai la voce» - per New York e l’amore dell’italoamericana Suze Rotolo, Dylan vuole «rotolare come un sasso», non «affondare come un macigno», certo nella sua irridente giovinezza che «i tempi stiano per cambiare». La caparbia fierezza, la cognizione del genio di bastare a se stesso, risuonano nelle rime di Don’t Think Twice, It’s All Right, misogine, aspre: «Hai solo sprecato un po’ del mio tempo prezioso, ragazza». La ragazza era la tenera Suze, scomparsa a 67 anni nel 2011, per tutti la bellezza avvinghiata a Dylan, trench bohémien, sulla copertina del 33 giri The Freehweelin’ Bob Dylan. 

Al giovanotto sicuro di sé - «Picasso aveva ribaltato il mondo dell’arte, io volevo fare lo stesso con la musica» - ma senza un cent, i dollari per produrre una canzone li trova l’amata, e già nota, Joan Baez, che chiede un prestito a Furio Colombo, columnist del Fatto allora manager Olivetti. Colombo, pioniere dell’avanguardia italiana Gruppo 63, raccontava poi l’aneddoto agli amici, ridendo: «Ne nacque Blowin’ in the Wind, avessi il copyright sarei ricco!». 

Con un contratto per la Columbia Records, 1962, Dylan diventa voce di una generazione, al Greenwich Village per i beatnik, alla Sorbona di Parigi per gli studenti 1968, a Praga, nelle cantine del futuro presidente Havel. Dylan canta nel 1963 a Washington davanti ai dimostranti per i diritti civili e a Martin Luther King, ma la politica gli sta stretta, detesta quelli che un collega, Francesco Guccini, bollerà come «critici, personaggi austeri, militanti severi». Nel 1965 si presenta a Newport, tempio della musica folk, con una chitarra elettrica Fender Sunburst Stratocaster, e i «militanti severi», fedeli alla francescana chitarra acustica, rumoreggiarono, malgrado le difese del maestro Pete Seeger.  

 

Perseguitato, come quando tornerà alle radici cristiane e ebraiche o perfino rischierà la morte a Woodstock con la moto Triumph nel ‘66, Dylan si lascia alle spalle i conformisti ed esplora, coraggioso e solitario, nuovi orizzonti. Highway 61 Revisited, Blonde on Blonde sono gli lp, come si chiamavano allora, che ne conservano l’arte, ma anche in canzoni semplici come This Old Man, o nella partecipazione ai Traveling Wilburys con le icone George Harrison e Roy Orbison, il talento di Dylan risplende. 

È difficile ricordare cosa sia stato Bob Dylan per i baby boomer, i nati tra il 1946 e il 1964. Due collezionisti italiani, l’editore Carlo Feltrinelli e il critico jazz Fabio Caronna, si disputano il record della raccolta completa di «bootleg», incisioni pirata di Dylan, mentre su Linus, la rivista diretta da Oreste del Buono, per mesi e mesi i lettori polemizzano su un verso mal tradotto. In una libreria antiquaria trovai il suo romanzo Tarantula con dedica di pugno a John Lennon: al mio stupore, il libraio confessò laconico «Yoko Ono l’ha dato al maggiordomo come liquidazione». In lui il Nobel premia dunque anche i boomer, ma non nell’avida, cupida, gelosia, nelle migliori speranze da giovani, prima che la vita insegnasse, durissima maestra, «quante strade mai un uomo dovrà faticare prima che tu lo possa chiamare uomo», Blowin’ in the wind, Bob Dylan, 1963. 

Qui puoi leggere il post Facebook indirizzato a Alessandro Baricco che si è detto contrario al Premio Nobel a Bob Dylan!