Ieri notte alla Convenzione democratica di Charlotte era in programma il discorso del presidente Barack Obama, puntato sul lavoro e ceto medio. Ma se la rivista Forbes annota «Un discorso che sarà riletto per generazioni» non intende elogiare in anticipo Obama. L’entusiasmo del periodico liberista va al presidente Bill Clinton, che ha parlato mercoledì. Repubblicani e democratici, analisti e militanti, giornalisti e studiosi sono concordi, è stato un «perfect speech», il discorso perfetto.

E in un paese alla vigilia di elezioni come l’Italia, tanti avranno interesse a studiare, dissezionare, capire come Clinton abbia unito il partito, emozionato gli elettori e attaccato gli avversari, senza petulanza, odio, polemica.

Il «discorso perfetto» nasce dal carisma naturale di Clinton, la semplicità da ragazzo del Sud, con la voce roca, i capelli imbiancati, il sorriso sempre malizioso. «The natural», politico naturale, lo chiamavano ai tempi della Casa Bianca, 1993-2000, ma il talento è solo parte del successo di Clinton alla Convenzione.

Il commentatore della rete tv conservatrice Fox, Brit Hume, ammette «Se fossi colpevole di qualche guaio vorrei Clinton come avvocato…» e il manager repubblicano Castellanos esagera «Non c’era bisogno neppure che Obama parlasse stanotte. Clinton ha vinto le elezioni per lui». A Clinton è riuscita a perfezione la magia di Ronald Reagan, parlare in ogni tinello agli americani, sedersi con loro sul divano di casa, farli sentire a proprio agio, come se il Presidente fosse il vicino con cui parlare del semiasse dell’auto malandato, le tasse, il mutuo. Quel che a Barack Obama non riuscirà mai, non per i suoi difetti, ma per i suoi pregi, cultura, freddezza, gusto per le analisi cerebrali, imbattibile in una discussione tra studiosi, goffo al bar.

Alla Convenzione repubblicana del 1992, quando la destra radicale cominciò la marcia di conquista del partito contro i moderati alla Bush padre, Ronald Reagan ammonì «Appellatevi sempre a quanto c’è di buono negli americani, non a quel che c’è di negativo». Reagan coccolava la retorica di destra, dall’aborto ai tagli sulla spesa pubblica, senza che il partito si allontanasse dal centro. Il «discorso perfetto» di Clinton - e qui vorrei che ascoltassero i leader italiani, soprattutto i giovani, conservatori, centristi o progressisti che siano - elogia a sorpresa gli avversari del passato, Eisenhower, Reagan, Bush padre e perfino il detestatissimo dalla base democratica George W. Bush. Dice «io non ho mai imparato a odiarli, come la destra repubblicana odia oggi il Presidente». Non è signorile gesto di eleganza, è tocco da politico fine. Dice a chiunque voti per i repubblicani, va bene, non sei un gangster guerrafondaio che ruba ai poveri, sei americano come noi, lavoreremo insieme, ma ora, fidati, meglio rieleggere Obama, per secchione e primo della classe che sia, anziché azzardare con Romney, ostaggio dei radicali come Ryan, pronti a tagliare le medicine ai bambini poveri. Quando tocca alla propaganda, nessuno commuove come Clinton, non ha fatto vedere grafici con deficit e tagli alla sanità, ha solo evocato piccini malati, come in un romanzo dell’Ottocento di Dickens.

Da anni Obama auspica una politica americana che non si divida nello scontro di tribù ostili, ma dopo quattro anni di sua amministrazione l’America è più divisa che mai. Clinton, contro cui la destra scatenò un safari feroce, prima con l’indagine kafkiana del Whitewater, poi con la battaglia sullo scandalo Lewinsky, unifica l’audience senza rancore. Gode del consenso del 69% degli americani, repubblicani nostalgici inclusi come tanti democratici adoravano Reagan.

Il «discorso perfetto» di Clinton riconosce le difficoltà di Obama, ma ricorda come i guai economici della crisi lo precedessero e come Bush abbia dilatato il debito pubblico. Secondo l’analista John Baldoni, Clinton fa il miracolo parlando agli elettori non come «massa», come «individui», «persone». Con il ritmo di espressioni gergali, «heck… now… lemme tell you…», da predicatore battista sul pulpito o da blues di Ray Charles in concerto, Clinton concede ironia, sensualità, fede al discorso, riscalda l’atmosfera che Clint Eastwood aveva invece raffreddato parlando alla sedia vuota della Convenzione repubblicana.

Come Reagan, Clinton sa che il cuore dell’America può in certe stagioni finire ostaggio della paranoia, cosi ammoniva lo studioso Hofstadter, ma per natura resta conciliante, collaborativo, pragmatico. Clinton nega che progetto, leadership e slogan repubblicani siano migliori di quelli di Obama, pur con le sue lentezze e snobismi e si appella al buonsenso.

Sarebbe davvero importante che i leader italiani ne analizzassero tono, tecnica, sentimenti e profonda conoscenza politica dei fatti. A una condizione però, cruciale. Perché un discorso risulti «perfetto» a chi lo ascolta, occorre che l’oratore creda davvero, non solo per tv o internet, a quel che dice. I valori dell’America media, la famiglia, la compassione, l’innovazione e la solidarietà sono la vita di Clinton, da figlio di un’infermiera ragazza madre, a Presidente. La capacità di ascoltare le ragioni degli avversari, provando a confutarle, persuaso dei propri argomenti e valori, senza odio, petulanza, rancore, ostilità, broncio, sussiego e presunzione.

Imparare a scrivere un «discorso perfetto» è alla fine solo una tecnica, basta montare e smontare lo «speech» di William Jefferson Clinton, detto Bill, a Charlotte. Condividerne davvero la filosofia politica democratica è difficile, occorre una vita intera. Chi ci riuscirà in Italia? E in America basterà ad Obama l’assist «perfetto» di Clinton? Risposte a novembre e in primavera.