La prima inaugurazione di un presidente americano si tenne a New York, non Washington, nel 1789, organizzata per dimostrare ai cittadini che, lasciando la monarchia per la repubblica e Re Giorgio per George Washington, non avevano perduto nulla. Il presidente, allora come oggi, è un Re Democratico, e il cancelliere del tempo, Livingstone, gridò come a Buckingham Palace «Lunga Vita al Presidente!». 

Ieri, con il giuramento di Donald Trump neo presidente repubblicano, il passato è tornato come un lampo, su una Washington dal cielo coperto ma non fredda. Trump, da vero monarca, ha parlato direttamente al suo popolo, proclamando che non si trattava di un «passaggio di poteri da un partito all’altro», ma del «ritorno del potere al popolo». Un messaggio populista, diranno gli analisti colti, ma il «popolo», venuto con 400 autobus, guidando, in treno, a sentire l’amato leader, applaude con gusto, fischiando il senatore democratico Schumer, incauto a citare gli emigranti. 63 milioni di americani hanno votato Trump e il vice Mike Pence, la loro scommessa ha vinto a sorpresa e Trump non li ha delusi. 

Smentendo chi giurava su un discorso da statista moderato, Trump ha parlato pochi minuti, seminando entusiasmo nella piazza, e tra media, tv, blog conservatori. «America First!», ha gridato due volte, e «America First!» non è slogan arrabbiato della nuova destra Alt-Right del neo consigliere Bannon, è l’ancestrale grido di guerra della destra protezionista, che proponeva negli Anni 30 di isolarsi dal mondo. «Comprare americano, assumere americani», lo slogan di Trump presidente suona come musica per Alexi Dogson e la sua ragazza, venuti dal Tennessee. Sognano di aprire un negozio, parlano di industrie chiuse, parlottano con Mandy Connally, uno dei bikers con le rombanti Harley Davidson, «saremo il tuo muro di carne contro gli anarchici», gridano a Trump. Quando parte qualche fischio, un vecchio biker si inchina e mostra le terga ai contestatori. 

Gli scontri violenti degli anarchici, una decina di isolati dal palco, negozi devastati, feriti, 95 arresti, la polizia a sparare granate a «concussione», cementano solo il favore della base trumpista contro «quelli là, tutti pagati dal finanziere Soros». I duri vengono insultati, «Avete perso, Hillary ha perso», ma non hanno certo votato, sono estremisti no global. Se le danno con qualche biker e la polizia, ignari che la loro ricetta anti mercato e Trump non sono poi così diverse. 

 

Un’intera famiglia asiatica è venuta ad applaudire Trump, sono i Hwang, mamma, papà e bimbo con bandierina «Trump aiuta chi è legale, taglia regole e tasse, restituisce il potere alla brava gente». Se il cronista obietta, «potere popolare» con un presidente figlio di un milionario, che vive a Fifth Avenue e ha un’amministrazione targata dalla finanziaria Goldman Sachs, ecco il miracolo del populismo. 

Alexi, i Wang, il biker che parla col sedere, Mandy, tutti i trumpisti con cui ieri ho bevuto il caffè e scherzato su bandiere Make America Great Again cucite in Messico e Indonesia, ignorano realtà, obiezioni, numeri. Affascinati dal grido rauco di Trump, gli si affidano contro un’economia che non cresce abbastanza, robot in fabbrica, Paesi poveri che diventano ricchi. Re Trump è la macchina del tempo, li riporterà al 1945, quando, padrona del mondo, l’America produceva il 50% del Pil globale. 

Trump è stato bravissimo a convocare una cerimonia in cui l’odiato mondo dei Vip di Obama&Hillary, cantanti, attori, la aborrita Hollywood, sono cancellati. Ai balli di ieri notte, nella sfilata, in piazza, passavano band sconosciute, ballavano le modeste Rockettes del Radio City Music Hall, suonavano bande rurali, dalla Olivet Nazarene University di Bourbonnais, Illinois, alle Mid Americans Cowgirls Rodeo Drill Team di New Buffalo, Michigan, o la Rural Tractor Brigade. Niente Harvard University, Meryl Streep, Bruce Springsteen, meglio cow girls, Harley Davidson, rodeo. 

Bill Kristol, repubblicano direttore del foglio conservatore Standard, lamenta che dal discorso di Trump manchino le parole «libertà, uguaglianza, costituzione…» ma i trumpisti dei 400 bus se ne infischiano, felici che l’America non parli più di diritti a Cina e Russia, meglio il negozio sotto casa per Alexi. Che «assumere americani» possa non essere una buona idea, un terzo delle aziende di Silicon Valley - Apple compresa - sono fondate da famiglie di emigranti, che la forza dell’America sia globale, non locale, non li preoccupa. La vogliono «prima» anche a costo di restare sola. Con straordinaria sagacia Trump ha venduto loro questo sogno. Tornate a casa le Mid Americans Cowgirls Rodeo Drill Team, si tratta di vedere se davvero, e come, carbone e catene di montaggio possono tornare a funzionare nell’era digitale. Perché si affascina da Re, ma si governa da Presidente. 

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