La giornalista di Futura Maria Teresa Giannini intervista Gianni Riotta sul rapporto tra Big Data e giornalismo alla Cavallerizza Reale di Torino. 

Di seguito l'intervista completa:

’To bit or not to bit?’ Questo il dilemma di una società fortemente connessa, in cui i Big Data, l’insieme vario e velocissimo di dati veicolati dalla rete, sono indispensabili e contesi sia dagli Stati sia dalle grandi aziende, ma ovunque se ne parli scatenano resistenze e polemiche, non da ultimo nel mondo del giornalismo.

“In questi giorni è nata una disputa fra Nate Silver, guru dei Big Data secondo cui questi saranno il cuore del nuovo giornalismo, e il New York Times, che continua a sostenere la validità del metodo di lavoro consumando la suola delle scarpe.” afferma Gianni Riotta, editorialista della Stampa e docente alla LUISS “Guido Carli”, che oggi alle 17.30 sarà ospite della Cavallerizza Reale di Torino per parlare di come le informazioni veicolate dalla rete stiano trasformando il nostro modo di vivere e la professione di reporter.

 

I giornali italiani utilizzano a sufficienza i Big Data?

Più di quanto si pensi: in Italia, La Stampa si occupa di analisi di dati dal 2006 e con il tempo il progetto si è sviluppato. Un esempio significativo è l’ultimo monitoraggio delle elezioni. Prima un giornalista intervistava qualcuno nei bar e pensava di avere un campione sufficiente per conoscere un fenomeno. Oggi con la rete molto è cambiato: certo, i Big Data non “sostituiscono” il giornalismo, ma velocizzano e aggregano molte informazioni utili al giornalista, e stanno trasformando l’economia, la salute, la sicurezza. Sono il futuro.

 

Internet è nata con pulsioni “anarchiche” nei confronti del diritto e, in particolare, verso quello nazionale, eppure è con questo strumento che gli Stati continuano a legiferare. Lei pensa che il vuoto normativo continuerà o spingerà i Paesi a superare le divisioni? Come vede al carta dei Diritti di Internet italiana?

La ricostruzione delle origini di Internet diffusa in Italia non corrisponde al vero: la rete non è affatto anarchica, è nata come un progetto della difesa statunitense che, attraverso Arpanet, metteva in collegamenti i gangli americani cruciali. Internet non è l’arma dei buoni, ma un centralizzatissimo sistema militare, che si aprì ad alcuni teorici di opposta visione alla fine della guerra fredda. Quanto alla Carta, è stata scritta da professori che hanno spiegato al mondo come si infilano i pantaloni la mattina. Da uno a dieci, la sua importanza è dieci, ma se parliamo di impatto, allora la valutazione è zero. Internet si cambia lavorandoci dentro.

 

Negli ultimi due anni il dataset è arrivato a 650 exabytes, veicolati soprattutto da Facebook e Google. Una realtà che ci induce a riflettere…

I dati sono come i ponti e le terre del mondo medioevale, dove chi voleva ottenere il massimo potere doveva controllarli. Il vero problema è: chi controlla tutte queste informazioni? Gli Stati, le grandi compagnie, i cittadini, un gruppo oligarchico? Di questo dovrebbero interessarsi i vari Parlamenti, e per ora non se ne occupano. Verosimilmente si arriverà a un compromesso fra governi, cittadini e aziende.

 

La Cina sta investendo molti capitali in un’operazione di “land grabbing” in Africa centro-australe per costruire infrastrutture (soprattutto ospedali, a quanto dicono). Se il gigante asiatico portasse lì anche la connessione veloce, miliardi di persone “invisibili” potrebbe rivoluzionare la rete?

Non prenderei la Cina come modello di Paese che vuol fare sviluppo. E’ vero, ha uno dei tassi di alfabetismo digitale più alto al mondo e lì la vendita e la produzione di materiale informatico galoppa, ma il governo di Pechino censura ancora i social network e i motori di ricerca, oppure li usa per mettere il bavaglio agli utenti e controllare i cittadini. Il paese più avanzato in questo ambito e che investe maggiormente in Big Data restano gli Stati Uniti. I dati, purtroppo, hanno cambiato l’economia, la salute, la sicurezza, ma da noi c’è ancora chi non lo comprende.

 

Lei dice “purtroppo”: ha forse nostalgia di un mondo meno connesso, anche in ambito giornalistico?

Penso che la nostalgia sia un sentimento da provare solo per le persone scomparse e non per realtà di questo genere. Ad ogni modo no, non ho nostalgia. Piuttosto, la mia affermazione è motivata dal fatto che preferirei un mondo in cui gli Usa non fossero un monopolista dei dati, ma competessero con i cinesi e i russi, mentre oggi questi ultimi fabbricano troll che diffondono disinformazione e l’Europa costruisce regole in cui arroccarsi.

 

A questo proposito, La corte europea ha stabilito il 6 ottobre 2015 che le aziende statunitensi non possano più intromettersi automaticamente nella privacy dei cittadini del vecchio continente. Cosa significa?

Vuol dire che prevale ancora una sorta di timore verso ciò che non si può controllare. L’Europa non ha grandi gruppi come Facebook o grandi service providers come Google, le istituzioni comuni pensano che ci si possa difendere dal futuro imbrigliandolo in regole, ma così non fanno che illudersi di risolvere i problemi legati alla gestione del flusso di dati.