Sarebbe molto diversa l’America del presidente numero 45, Mitt Romney, da quella del presidente rieletto, il 44, Barack Obama? Si direbbe di sì a leggere la dichiarazione, che tradisce troppa adrenalina di fine campagna, del candidato vicepresidente repubblicano Paul Ryan «quella di Obama è strada pericolosa, aumenta il peso dello stato, restringe libertà e diritti civili, compromette i nostri valori giudeo-cristiani di paese grande e unico». Ryan non è felice, Romney l’ha lasciato in panchina con il suo piano per la riduzione di tasse, spesa e debito. Sa che il voto nazionale dà ancora alla pari i repubblicani, sa che Obama sembra in vantaggio negli stati chiave – vedi Ohio – e medita la statistica maledetta che lo fa tremare: dal 1900 dei 28 candidati vicepresidenti sconfitti solo nove tornarono poi in corsa per la Casa Bianca ma uno solo eletto davvero, Franklin Delano Roosevelt.  

Ryan esagera, non è in gioco la radice occidentale, ebraica e cristiana d’America. Ed esagera anche l’ex presidente Bill Clinton, che dimentica di avere definito Romney «ottimo manager», e arringa all’ultimo comizio. 

«I repubblicani vogliono cancellare ogni progresso!». Guai e opportunità d’America resteranno simili, giuri a gennaio il «44» Barack o il «45» Romney. L’economia migliora, pur troppo piano, un rapporto di Wall Street sintetizza: «Comunque vadano le elezioni l’economia crescerà nei prossimi quattro anni. I consumatori tornano a comprare dopo avere ridotto il debito personale ai minimi dal 2003. I prezzi delle case risalgono dopo il meno 30 per cento dal record 2006. Le banche concedono prestiti dopo avere puntellato il capitale per oltre 300 miliardi dal 2009. Il boom dello “shale gas” continua».  

Tutto bene dunque? No, il deficit di un trilione di dollari è considerato dagli esperti del Council on Foreign Relations, «insostenibile», bisognerà ridurlo, ma come, visto che Casa Bianca e Congresso non sanno mai né contrarre le spese, né aumentare le tasse e neppure discutere insieme? La campagna di Obama s’è giocata sul lavoro, crearlo, e spendere con la Federal Reserve, la Banca Centrale di Bernanke, perché tecnologie e Cina non lo dissolvano. La campagna di Romney su meno tasse, meno spesa (tranne per la Difesa), lotta al deficit. Wall Street ha appoggiato i repubblicani, sedotta dalla sirena di tagli alle tasse e spaventata da più pressione fiscale su profitti e investimenti. Obama non è riuscito a farsi apprezzare, né dai grandi finanzieri di Wall Street né dai proprietari di negozietti «pop and mum», giudicato da tutti anti-business. E contro di lui, sostenuto dalle minoranze e non dai bianchi riaffiora sinistro il razzismo. Guardate le grazie concesse ai condannati dalla Casa Bianca: Reagan ne concedeva una ogni 3 suppliche, Clinton una ogni 9, G.W. Bush una ogni 33, Obama è il più arcigno di tutti, solo una grazia ogni 50 suppliche. Vuol rivelarsi duro, ma non basta purtroppo. 

Studi di Market Watch e della Barclays, un po’ scolastici, prevedono che chi possiede azioni tifi Romney, chi titoli di stato Obama ma la tenuta di Wall Street e bond Usa dipende invece da fattori globali che la Casa Bianca non gestisce. È sì possibile una ripresa della Borsa se i repubblicani vinceranno, soprattutto per titoli finanziari, assicurativi, cui Romney ha promesso la fine di controlli severi, forse della stessa riforma Dodd-Frank la più tosta dagli anni Trenta: ma potrebbe rivelarsi effimera, poi la realtà detterà i numeri. A cominciare da Capodanno 2013 quando scatterà il cosiddetto «abisso fiscale», tagliola legale che potrebbe innescare riduzioni di spesa per 600 miliardi di dollari e alzare le tasse, per contribuenti e aziende, per effetto del Budget Control Act 2011. Si rischia, secondo la Federal Reserve e il Congressional Budget Office, «una nuova recessione». Partiranno anche le tasse per la riforma sanitaria di Obama, mentre tagli automatici colpiranno un migliaia di programmi di spesa, da Medicare al Pentagono. Investitori guidati da Black Rock e da importanti fondi pensioni hanno comprato pagine intere di pubblicità ieri ammonendo sul rischio «abisso fiscale». 

Come sempre, scoppiati i palloncini rossi e blu della campagna, la festa si spegne. Obama dovrebbe finalmente aprire a business e mercato, ma l’appoggio dei tantissimi sindacati, cruciali in Ohio con la ridda di sigle AFL-CIO, AFSCME, NATCA, TWU, AFT, UFCW, IUPAT, andrà ripagato. E Romney scoprirà come faticosa sia la strada per bocciare la riforma sanitaria di Obama, specialmente se il Senato resterà democratico. E poi Siria, Afghanistan all’ultimo anno di guerra, Cina che elegge i nuovi leader in questo storico novembre, Europa stanca di debito e desiderosa di leadership. A guida democratica o a guida repubblicana l’America, per fortuna, resterà l’America. Chissà se Obama e Romney, nei migliaia di chilometri macinati in Ohio, hanno mai avuto modo di passare a Youngstown, tra Pittsburgh e Cleveland, dove l’Istituto Namii brevetta «printer a 3 dimensioni» capaci di «stampare» oggetti a partire da un semplice disegno al computer. Sarà la nuova rivoluzione industriale, non più prodotti di massa, ma oggetti singoli, ad hoc per un solo cliente come nell’antico artigianato, pezzi unici riprodotti per voi, anche a casa vostra, su vostro desiderio. La capacità di «stampare futuro» nell’antico paese è la speranza d’America, guidino i repubblicani o i democratici, come già tante volte in oltre due secoli di democrazia.