Quel che resta della società letteraria di New York – chiusi i caffè dell’Upper West Side, ridotte a poca cosa le (un tempo boriose) riviste dei «glitterati», con il web a dominare sulle biblioteche – ha passato il weekend che precedeva questo 1° settembre a imprecare contro l’ascesa elettorale di Donald Trump e a leggere le copie staffetta di Purity, il nuovo romanzo di Jonathan Franzen, 563 pagine, edito da Farrar Straus and Giroux. L’autore, considerato il maggior scrittore americano vivente, ha speso la vigilia a sollevare ogni possibile polemica, on e offline, contro le femministe militanti e no, contro i cultori dei new media, accademici o patiti di Silicon Valley, contro i circoli intellettuali.

Senza scrupoli lessicali
Purity confermerà gli astiosi avversari di Franzen nella loro bile, perché i protagonisti non coltivano nessuno degli scrupoli del bon ton politico che impera nei campus universitari Usa, dicono «cunt cunt cunt» (figa figa figa) per definire la propria ragazza, detestano Google e Facebook e vivono senza troppo preoccuparsi dei giornali chic. Mischiando la lettura del romanzo a quella delle cronache sulle primarie presidenziali 2016 verrebbe proprio da dire – absit iniuria verbis – che Franzen è il Donald Trump della letteratura, intento a squassare ogni canone vigente e parlare direttamente al «popolo». Che Trump riesca davvero ad arrivare alla Casa Bianca è dubbio, i militanti lo temono, il guru statistico Nate Silver lo esclude e io mi fido di Silver: ma Franzen ha scritto un bellissimo romanzo, di cui vi raccomando la lettura.

L’ombra di Assange
Pip è una ragazza di 23 anni che ha 130.000 dollari (ormai il cambio in euro poco cambia) di debito con l’università, vive in un appartamento occupato a Oakland, in California, e sopporta la mamma, veterana hippie che ha tagliato i ponti con la famiglia, senza neppure dire a Pip – Purity Tyler è il vero nome – chi sia suo padre. Pip, il soprannome rimanda a Grandi speranze di Dickens e al marinaretto matto di Moby Dick di Melville, vorrebbe emanciparsi dall’eredità asfissiante degli Anni 60 e ritrovare il papà e cerca aiuto, a modo suo, in Andreas Wolf. Cresciuto tra le spie della Germania Est, Wolf è tra i boss del Sunlight Project, una sorta di WikiLeaks, e di certo richiamerà al lettore l’ombra, per alcuni sinistra per altri carismatica, di Julian Assange: accusato di stupro in Svezia, rifugiato in un’ambasciata a Londra, ambiguo profeta della trasparenza altrui e dell’oscurità propria.

La doppiezza di Assange, contro cui in una citazione Franzen è lapidario («megalomane, autistico, maniaco sessuale»), filtra in Wolf, anche lui costretto alla macchia in Bolivia, e la povera Pip, come il suo omonimo baleniere matto di Moby Dick, cade a capofitto ogni giorno, non nell’oceano, ma in un mare di segreti. E perfino il segreto della copertina, che ritrae una giovane donna, anima i dibattiti: chi è la misteriosa figura, opaca, ritratta dall’art director di Farrar Straus and Giroux, Rodrigo Corral? «Un’amica del fotografo», si schermisce lui lapidario, e allora si parte sui social media a setacciare il profilo Facebook dell’artista, Bon Duke: invano, non si è ancora deciso se si tratta del volto di Pip e della mamma hippie.

Non esce meglio identificato neppure l’altro antieroe, Tom Aberant, intellettuale del Colorado che guida un sito web di giornalisti militanti, intenti a cercare scandali, veri o presunti. I tempi sono di morale doppia, se non tripla, e Wolf nicchia davanti a possibili rivendicazioni contro Google, osso troppo duro da aggredire, preferendo scegliere – come l’ex agente Nsa Snowden rifugiato nella Mosca di Putin – di convivere nelle «nicchie dei sistemi totalitari».

Un felice, virile disincanto
Dopo Le correzioni e Libertà (tradotti da Einaudi, che pubblicherà Purity a febbraio), Jonathan Franzen ha scritto un libro divertente, critico, sarcastico, pieno di irriverenti verità sulla disfunzionale società americana del presente. Fino all’autoironia, nel passaggio che mi ha fatto ridere da solo quando un personaggio bofonchia «“Troppi Jonathan in giro. Un’epidemia di Jonathan letterati. Se leggi la New York Review of Books, pensi che Jonathan sia il nome comune maschile più diffuso in America. Sinonimo di talento e autorevolezza, ambizione e vitalità”. E inarcando un sopracciglio verso Pip: “E che diciamo di Zadie Smith”. Un mito giusto?”», l’ironia rivolta alla scrittrice cara alla cultura multietnica.

Nessuna delle polemiche contro Franzen si spegnerà dopo Purity, malgrado in qualche passaggio l’autore sembri un po’ intimidito dai critici. Il lettore interessato alla perenne cacofonia del web se ne rallegrerà o lagnerà, secondo l’inclinazione corrente. I superstiti lettori di romanzi – ma davvero ancora ne sopravvivono? – si godranno un gran bel libro, capace di inquadrare lo Spirito del Tempo. Al punto che Curtis Sittenfeld, critica del quotidiano inglese Guardian, violando ogni embargo, non resiste a twittare in anteprima un passaggio del libro: perché chi bazzica sereno il nostro mondo sa che tra cultura tradizionale e digitale non c’è alcun gap, occupano lo stesso spazio nelle coscienze, private e pubbliche. Leggete, per esempio, il diario in pubblico che il critico e editor letterario Severino Cesari va tenendo da qualche mese sulla sua pagina Facebook, la profondità del passato investita nei mezzi del futuro. Franzen agisce nella stessa dimensione, con felice, virile, disincanto.