Il 9 aprile del 1865, al vecchio Tribunale di Appomattox, in Virginia, il generale sudista Robert Lee firmò la resa degli stati ribelli Confederati, che quattro anni prima avevano lasciato orgogliosamente gli Stati Uniti d’America pur di difendere la schiavitù. Prima che l’armistizio potesse essere firmato da Lee e dal suo grande rivale, e futuro presidente, Ulysses Grant, occorrevano però copie autentiche dei documenti ufficiali che, allora, andavano redatti a mano uno per uno, penna, inchiostro, calamaio. Il compito toccò a un ex giornalista dello staff di Grant, ma il colonnello Bowers si emozionò e non riuscì ad aver la mano ferma che la calligrafia richiedeva. Grant, come sempre vestito con la divisa blu da soldato sporca di fango e col sigaro tra i denti, non volle perder tempo, temendo un ripensamento tra i focosi sudisti, e passò l’incarico al fido segretario, il tenente colonnello Ely Parker. Parker non ebbe timori o tremori, copiò l’intesa nel numero di copie richieste, con le concessioni delle armi agli ufficiali sudisti e l’impegno a lasciare ai militari sconfitti i cavalli in dotazione, indispensabili per il lavoro dei campi.

Parker era un nativo americano della tribù Seneca, il suo primo nome era stato Hasanoanda, aveva cercato di arruolare per i nordisti un reggimento di guerrieri Irochesi, ed era stato respinto, poi aveva provato ad unirsi all’esercito e di nuovo era stato discriminato, niente “indiani”, neppure tra gli abolizionisti del Nord. Si era rivolto allora al suo amico Grant, che apprezzandone le doti di ingegnere provetto e venendo da una famiglia da sempre antischiavista, l’aveva assunto nel suo staff.

Al momento della firma l’aristocratico Lee, le cui statue vengono abbattute adesso al Sud causando l’ordine del presidente di Trump di far scattare un processo federale contro i dimostranti ritenuti responsabili del “vandalismo”, sogguardò la pelle scura di Parker, i suoi lineamenti e lo riconobbe come indigeno. Sorridendo gli tese la mano. “Son lieto di vedere qui almeno un vero americano”. Nel silenzio del tribunale, al momento della firma di pace dopo una guerra civile che ha ucciso più cittadini Usa di tutti gli altri conflitti insieme, dalla Rivoluzione 1776 all’Afghanistan, la risposta di Ely Parker Hasanoanda sfidò chiara tempo e storia nella sua nobiltà: “Siamo tutti americani” .

Era il riconoscimento che la Guerra Civile era finita, di nuovo tutti americani sotto la bandiera a stelle e strisce, ma era anche l’auspicio, di chi era stato discriminato e intuiva che tante altre ingiustizie sarebbero seguite, per una nazione più tollerante. La resa di Appomattox doveva chiudere la Guerra Civile, davvero, secondo la speranza del tenente colonnello Parker facendo di nuovo “tutti americani”. Ma quelle firme svolazzanti di inchiostro di china, sui documenti ricopiati con perfezione dall’ex capo Sachem, non chiusero la Guerra Civile. Il generale Forrest, collega di Lee, fondò il Ku Klux Klan che invano il presidente Grant provò a sradicare, il presidente Lincoln fu ucciso da un attore militante sudista meno di un mese dopo la pace, seguirono generazioni di sfruttamento, paura, la legge non scritta di “Jim Crow” che escludeva i neri dalla democrazia.

La settimana scorsa lo stato più povero d’America, il Mississippi, ha votato nel suo parlamento per eliminare dalla bandiera locale l’icona delle Stars and Bars sudiste, ultimo baluardo che onora il vessillo fatale di Lee dai pennoni di uffici, istituzioni, scuole. Per milioni di neri quel simbolo ha l’effetto tragico che la svastica ha sulle vittime del nazismo, per troppi bianchi è invece solo “tradizione”. 

Ora vivremo, 155 anni dopo la stretta di mano tra il generale Lee e il tenente colonnello Parker, una nuova “fine della guerra civile, ma purtroppo tante ancora sembrano necessarie in questa America senza pace. Quando Nascar, le corse automobilistiche Usa, ha messo al bando dai circuiti la controversa bandiera Confederata, tanti avevano applaudito alla misura, per restare poco dopo colpiti perché Bubba Wallace, unico pilota afroamericano della formula, aveva trovato nel suo garage un cappio, segno minaccioso dei linciaggi di cui i neri erano vittime al Sud. I colleghi, in solidarietà, spingono dai pit stop alla partenza la rombante Chevrolet Camaro ZL1 numero 43 di Bubba, commuovendo il paese dalle tv. L’Fbi non rinviene però prove di dolo, pare che il nodo fosse usato come maniglia, e si scatena una campagna razzista online, contro il pilota.

L’America è divisa in due metà in politica, i sondaggi adesso premiano di 12 punti i democratici di Joe Biden sui repubblicani di Donald Trump, ed è spaccata in ogni altro campo. Poche ore dopo la toccante scena dei piloti a stringersi intorno al piangente Wallace, Mike Fulp, impresario del circuito 311 Speedway a Pine Hall, in North Carolina, ha preso a vendere online “Nodi scorsoi alla Bubba Wallace”, bandiere confederate, cappellucci da baseball rossi MAKE AMERICA GREAT AGAIN sponsorizzati dal presidente Donald Trump, concludendo lo spot con lo slogan truce “Sulla mia pista armi sempre libere!”. I “cappi Wallace” erano venduti “con garanzia a vita”, finché gli sponsor, disgustati, non si sono ritirati dalle gare di Fulp, tutti tranne un paio, e due gare ufficiali del Carolina Sprint Tour non son state trasferite su altri impianti.

È come se quel dialogo tra Lee e Parker non riuscisse mai ad approdare davvero, in un condiviso “siamo tutti americani”. Perfino il presidente Donald John Trump, l’uomo cui la Costituzione assegna il compito di custodire l’unità del paese, twitta irruento un video in cui un suo militante urla scomposto “White Power”, potere ai bianchi, mentre scorrazza su un kart da golf sfidando i dimostranti antirazzisti. La scena ha avuto luogo ai Villages, in Florida, una di quelle comunità per pensionati, ora devastate dal Covid-19, un tempo leali al presidente e l’uomo sfoggiava manifesti con “Trump 2020” e “America First”. Gasato, il presidente ha ritwittato il post, incurante del grido razzista, con la didascalia focosa “La sinistra estrema e lazzarona appassirà in autunno. Il corrotto Joe (Biden) è finito. A presto!”. Le reazioni son state dure, Tim Scott, unico senatore nero repubblicano, ha parlato di “tweet insultante”, invitando il presidente a cancellarlo, cosa che Trump ha fatto, evento rarissimo, senza però scusarsi . “America First” era un movimento nazionalista e razzista Usa di un secolo fa, screziato da filosofie antisemite e populiste, con cui simpatizzarono democratici come il presidente Wilson e repubblicani come il presidente Harding. Portavoce era l’asso dell’aria Lindbergh, primo a trasvolare l’Atlantico su un monomotore nel 1927, persuaso, sino a dieci settimane prima dell’attacco giapponese a Pearl Harbor, dicembre 1941, che solo “gli ebrei vogliano trascinare noi americani alla guerra!”.

La Storia non sembra dunque finire mai in queste ore di epidemia, che al Sud degli Stati Uniti cresce senza sosta, per la mancanza di misure di prevenzione dei governatori repubblicani, e di crisi economica. Il 26 giugno è morto, nel carcere di Birmingham, Alabama, Thomas Edwin Blanton Jr., l’ultimo dei terroristi del Ku Klux Klan razzista, condannato all’ergastolo per l’attentato del 1963 alla Chiesa Battista della Sedicesima Strada, dove, tra quattordici feriti, morirono dilaniate le ragazzine Addie Mae Collins, Cynthia Wesley e Carole Robertson di 14 anni, e Denise McNair di 11, mentre Sarah Collins, sorellina di  Addie Mae, perse un occhio: erano lì per la scuola di catechismo della domenica.

Tutti a Birmingham sapevano che dietro l’ordigno esplosivo c’erano gli uomini del Klan, la Chiesa era un centro di attività per i diritti e gli attentati razzisti così frequenti che la città ebbe il sinistro nomignolo di “Bombingham”. Il reverendo Martin Luther King, al funerale delle bambine, denunciò il racket razzista, ma il fosco capo dell’Fbi, Edgard J. Hoover, che odiava King e il ministro della Giustizia Robert Kennedy, insabbiò subito le indagini, blaterando di “comunisti che aizzano i neri”.

Solo nel 1977, con alla Casa Bianca il democratico Jimmy Carter, il processo per la strage finalmente si concluse con la prima condanna del membro del Klan Robert Chambliss, morto in cella nel 1985. Altri casi giudiziari vennero lanciati, tra mille resistenze locali, nel 1980, 1988 e nel 1997 quando Blanton, e il suo complice Bobby Cherry, finirono all’ergastolo. Cherry morì nel 2004, ultimo era rimasto Blanton. Chissà se nelle sue ore di congedo -aveva detto al giudice “Io aspetto il verdetto del buon Dio, il Giorno del Giudizio”- aveva fatto in tempo a sentire quanto i suoi compagni di crociata KKK terrorizzino ancora figli e ripoti dei superstiti della sua strage, chissà cosa avrà pensato, prima di morire, dell’ammainabandiera di Stars and Bars nel cui nome sparse sangue innocente, chissà quando la saggezza del capo Seneca, e tenente colonnello Usa, Ely Parker, “We are all American” sarà infine verità.