Il Brasile deve vincere due volte. Sul campo deve assolutamente mettere le mani sulla sesta Coppa del Mondo di calcio, cancellando la tragedia nazionale 1950, quando in uno stadio Maracana dove i gerarchi avevano letto i discorsi della vittoria prima della partita, il leggendario Uruguay di capitan Obdulio Varela vinse 2 a 1, tra suicidi, depressioni e per l’incolpevole portierino carioca Barbosa l’ignominia a vita. Fuori dal campo deve provare di essere davvero all’altezza della retorica dei giornali.  

 

Nuova potenza, faro dell’America Latina, come Cina e India capace di fronteggiare le decadenti America ed Europa.  

 

La doppietta è cruciale, una seconda sconfitta in casa non lascerebbe pace a una generazione di tifosi della torcida, un’umiliazione per la nazione della presidente Dilma Rousseff, chiamata alle urne poco dopo il Mondiale, sarebbe débâcle. 

 

Il prossimo mese dirà chi è il Brasile del XXI secolo, fuori dalle cartoline di Ipanema, della giungla amazzonica, del Cristo di Rio offeso dai troppi spot, delle favelas mai redente, del Nordeste, che ieri i saggi di sinistra definivano «una zona esplosiva» e che ancora attende il riscatto, di un paese «nuovo ricco» che deve fare i conti non più con la fame e la dittatura militare dei tempi in cui il regista Glauber Rocha girava i suoi capolavori, ma con il dilemma dei nostri giorni: come redistribuire la ricchezza senza lasciar fuori ceto medio e lavoratori, mentre i ricchi diventano ricchissimi? 

 

Il calcio è –come sempre capita allo sport più bello, amato e diffuso del pianeta- metafora perfetta di questa contraddizione. Come nell’economia, anche nel football la distanza tra ricchi e no è cresciuta, in ogni campionato nazionale e poi per Uefa e Fifa, chi ha il capitale finanziario e umano domina, gli altri arrancano. Riuscirà il Brasile a dimostrare, nei 90’ delle partite e nei 30 giorni di World Cup, di essere paese globale, sport e società? Per quanto riguarda il pallone il sito statistico di Nate Silver, l’esperto che in America prevede le elezioni con l’efficacia di un profeta, non ha dubbi, il Brasile vincerà (noi abbiamo dubbi invece che, come afferma Silver, l’Ecuador abbia più possibilità di vincere la Coppa dell’Italia, idiosincrasie degli algoritmi Big Data…). Altri critici più avvezzi alle partite segnalano una certa fragilità nervosa dei giallo-oro, la pressione sportiva e no sui giocatori, il Dna ancora acerbo di Neymar, gli acciacchi dei veterani, Maicon e Julio Cesar. Altri guardano ai rivali, la Spagna aggressiva, la Germania Diesel, l’Argentina vogliosa dopo 21 anni senza vittorie di rivincita in casa dei rivali, le outsider, Italia, Inghilterra, Belgio, Francia, magari lo stesso Uruguay bis 1950. 

 

Come sempre il calcio, «la cosa più importante tra le cose non importanti» secondo l’arguta definizione di Arrigo Sacchi, dirimerà la controversia, assegnando, tra ululati di gioia e amare lacrime, il verdetto tra vincitori e vinti. Sarà fuori dal campo che i trofei saranno più duri da conquistare, molto più duri. Il calcio organizzato, la Fifa del sempiterno boss Blatter e la Uefa del sorridente, ma sempre meno candido, Platini, deve provare, con un mese di bel gioco, senza incidenti, doping alla Maradona 1994 o arbitraggi alla Moreno 2002, che -almeno ogni tanto- il gioco è pulito. Gli scandali delle mazzette per il Mondiale in Qatar chiamano al rinnovamento di un’organizzazione che Blatter ha reso, sì globale, ma anche lobby opaca, prigioniera degli sponsor, dove i giocatori migliori sono spremuti da 60-70 partite l’anno. Gli infortuni che piagano ogni Nazionale, da Cristiano Ronaldo a Montolivo e Ribery, il pallore e i malori in campo della stella Messi, confermano il ritmo ossessivo. Occorre giocare meno e meglio. La Federcalcio olandese ha già avviato la battaglia per cambiar mano dopo Blatter, Platini glissa, attacca quando si sente forte, media quando –come adesso- annusa il fuorigioco. Blatter –criticato perfino in copertina dal solitamente austero settimanale “The Economist”- spera nelle divisioni per un nuovo, grottesco, mandato. Il calcio ha invece bisogno di aria nuova. 

 

L’avversario peggiore per il Brasile, fuori dal campo, sarà il Brasile stesso. Da Rio de Janeiro a San Paolo girano storie d’orrore su 120 chilometri di coda nel traffico, prese elettriche senza energia, wi-fi spento, malavita di quartiere pronta a ingrassare a danni dei gringos, stadi nel caos, perdite d’acqua, biglietti introvabili. La rivista Foreign Policy titola un’inchiesta feroce «Perché il Brasile è completamente f…». 

 

E da mesi i brasiliani lagnano di sentirsi f…, la canzoncina «Imagina na Copa» resa celebre dalle voci di Fernando e Sorocaba, immagina durante la Coppa!, da sogno diventa imprecazione. Scioperi nella polizia, nel metro, tra gli addetti alla spazzatura? «Imagina na Copa» masticano tassisti fermi da ore, turisti bloccati in coda, lavoratori nei picchetti, borghesi che non riescono ad arrivare all’appuntamento. I ricchi, come confessa a “Foreign Policy” l’avvocato di Porto Alegre Rafael Pereira, «vanno via, approfittando degli sconti che le linee aeree hanno lanciato. Io le partite le guardo in tv al fresco in Perù e poi al mare col surf». Ma quando l’ex presidente Lula e la presidente Rousseff parlano di Brasile nascente superpotenza, spesso si dimentica che tassi di crescita tumultuosi, in verità oggi assai meno possenti, stentano ad arricchire un paese dove ancora il salario medio mensile, nel 2012, era di 650 euro. Altro che scappare al surf. 

 

Tanti brasiliani, pur amando il calcio, pensano che 10 miliardi di euro investiti in questa follia di dribbling, a soli due anni dalle Olimpiadi, siano troppi, con una criminalità che solo a Rio ha seminato 1465 morti da gennaio, milioni di disoccupati, corruzione che fa impallidire quella di casa nostra, scuole nelle favelas dove ci si ripara dietro una tettoia di Eternit. Sui muri delle città gli slogan deprecano la Coppa dei Ricchi, i militanti son pronti a scioperi, blocchi stradali, nella polizia, soprattutto a Rio e San Paolo, si temono scontri con i no global. 

 

Leggende urbane? Realtà? Vedremo già da stamane. Se tra traffico, smog, ritardi e imprecisioni, la cultura, il sorriso, l’amore del calcio e la solidarietà di un paese meraviglioso prevarranno, il Brasile vincerà il più importante dei suoi mondiali. Se invece il caos di queste ore finali dominerà sulla Coppa, e gli oligarchi di Fifa e Uefa litigheranno in pubblico con i leader brasiliani, allora neppure Neymar che alza il trofeo cancellerà l’umiliazione. E parlare di «nuova potenza» sarà risibile. 

 

Infine gli Azzurri di Cesare Prandelli, che arrivano in Brasile come vicecampioni d’Europa, forti di quattro trofei mondiali e sei finali disputate. Come sempre dominano le polemiche, Pirlo-Verratti, Balotelli-Immobile, doppio regista o no, falso 9 o no, Rossi e Destro perché no? Da Rivera-Mazzola 1970 è così e non saremmo noi se così non fosse. Se poi la Nazionale, come con Valcareggi 1970, Bearzot 1978 e 1982, Vicini 1990 e Lippi 2006 desse a un paese esausto di cattive notizia qualche occasione per urlare «Vai Italia!» sarebbe felicità pura. Perciò, geopolitica o no, esame di coscienza del Brasile o no, Uefa e Fifa candide o no, grideremo come usava un grande cronista degli stadi di un tempo «In bocca al lupo Cesare Prandelli, in bocca al lupo Azzurri d’Italia».