Ieri, undicesimo anniversario dell’attacco del terrorismo fondamentalista contro gli Stati Uniti, il «New York Times» non aveva titoli in prima pagina sul massacro al World Trade Center e al Pentagono. Non è dimenticanza o indifferenza. La vita nelle famiglie e la storia nel Paese vanno avanti, fra la lentezza delle singole giornate e la velocità tumultuosa dei lustri.
Oggi la vita degli americani, la storia della loro nazione e la campagna elettorale che porterà fra 60 giorni alla Casa Bianca il democratico Barack Obama o il repubblicano Mitt Romney, non sono ipnotizzate da Al Qaeda, network del terrore dall’Asia, all’Africa, all’Europa. Incute più paura una diversa ricorrenza di settembre, il 15, che quest’anno cade per la quarta volta: è la data del fallimento per la storica finanziaria Lehman Brothers, da molti considerato giorno d’inizio della più grande crisi economica mondiale dopo il crollo di Borsa 1929.
Il terrorismo non è finito, gli americani lo sanno. Al Qaeda torna a radicarsi in Iraq grazie al ritiro degli americani, attende il «tutti a casa» 2014 per tornare nelle vallate dell’Afghanistan, traffica con i servizi segreti dell’Isi in Pakistan, dove il suo fondatore Osama bin Laden veniva protetto ed è stato giustiziato. Colpita nella gerarchia e nella rete invisibile di cellule clandestine, al Qaeda è sulla difensiva in Somalia, attaccata da occidentali e africani, ma si infiltra fra i pirati all’imbocco dell’Oceano Indiano e i Tuareg a Timbuctù occupata. Lo studioso Graham Allison ammonisce sul mercato di materiale nucleare che Qaeda batte, preoccupato che un attacco con radiazioni di una «bomba sporca» stravolga la nostra democrazia.

Ma Homo Sapiens ha un genoma straordinario e remoto, che gli indica sempre il pericolo più prossimo come più reale e lo persuade, nel bene o nel male, a lasciare attendere il diavolo del futuro fin quando si presenterà. In America, Europa e Italia, l’ansia da 11 settembre 2001 è meno acuta di quella da 15 settembre 2008. Debito, disoccupazione, prezzo delle case, risparmi, sanità, pensioni a rischio, contrazione del tempo libero e del benessere, animano i nostri incubi, più della caverna con il mitra Kalashnikov dei terroristi salafiti.

Raghuram Rajan, professore dell’università di Chicago e ora consigliere economico principale del governo indiano, in un colloquio sull’ultimo numero della rivista Arcvision, spiega perché non si placa lo stress da crisi: abbiamo compreso, infine, che non viviamo quella che negli anni del boom i giornali chiamavano «congiuntura», ciclo effimero di recessione. E’ piuttosto un «new normal», una nuova realtà, i sussidi su cui contavamo per tenere su aziende e agricolture improduttive, la burocrazia che si poteva sempre dilatare per assumere raccomandati poco qualificati, la spesa pubblica che nutriva città e regioni, la svalutazione che piazzava i nostri elettrodomestici all’estero e le dogane che imponevano in Italia prodotti scadenti ma di monopolio, sono finiti, per sempre.

Auto, servizi, cure mediche, scuola, assicurazioni e pensioni, beni di lusso e confezioni del supermercato, ogni momento del nostro lavoro, dall’arte, alla scienza, al cibo, vivrà di regole e standard mondiali. O siamo capaci di dargli la stessa qualità top che il mercato richiede, e di produrlo nei tempi e ai prezzi che il mondo pagherà, o semplicemente quel bene non sarà più prodotto in Italia (o Francia, India, Messico) e i lavoratori che se ne occupavano resteranno a mani vuote.

Dieci anni fa spesso mi chiedevano: «Ci sarà un nuovo 11 settembre?». Certo che ci sarà, rispondevo, combattiamo la Prima Guerra Globale e sarà lunga, tormentata, incerta. Le stragi di Madrid e Londra, i massacri dimenticati di Baghdad e Kabul, confermano. Oggi mi chiedono invece «Quando finirà la crisi?». Cosa vuol dire «Fine della crisi»? rispondo. Che tutto torna come prima, americani a spendere e spandere su carte di credito personali e bilancio federale di Washington, europei con lunghe vacanze, vecchi prodotti, baby pensioni, scarsa competitività e produttività, cinesi con salari minimi e niente democrazia, indiani con laboratori informatici brillanti e campagne medievali? No, non torneremo più a quell’epoca.

La crisi finirà. Gli americani hanno stoppato l’emorragia del 15 settembre 2008 - «pensai a un certo punto, mio Dio, la nostra economia è finita» ricorda l’allora Segretario al Tesoro Paulson -, e se dopo le elezioni avranno il buon senso in Congresso di trovare un accordo su debito, tasse, fisco e bilancio, non perderanno neppure la tripla A, garanzia finanziaria. Gli europei hanno evitato finora la rottura dell’euro, domenica al Forum Ambrosetti di Cernobbio, con il presidente Napolitano e il premier Monti, si riconosceva che appena un anno fa tantissimi davano per certo che la nostra valuta sarebbe andata a picco, e che sarebbero tornate dracma, peseta e lira.

Se l’11 settembre 2001, mentre il World Trade Center si inceneriva, avessimo visto il mondo di oggi avremmo detto certo «Magari!», davanti alle minacce presenti di guerra e attentati. E se il 15 settembre 2008 ci avessero fatto intravedere la - pur precaria - scena attuale avremmo sospirato «Magari!», alla fine Lehman è rimasta una sola, il meltdown, la crisi delle banche, non c’è stata. Siamo feriti, fragili, anemici, ma vivi.

La Prima Guerra Globale durerà ancora a lungo e verranno giorni difficili in cui ci sorprenderemo di esserci dimenticati così presto dell’11 settembre e delle sue vittime. La Nuova Normalità durerà ancora più a lungo, nelle case, al lavoro, in politica. Rimettere in fretta la nostra economia al passo col mondo reale ci permetterà di evitare che il «New Normal» sia troppo amaro. E magari al prossimo 15 settembre faremo qualche calcolo del dare e dell’avere meno negativo. Ma nessuno ci farà sconti, solo il lavoro è valuta pregiata.