Si potrebbe scrivere una Storia della Letteratura Mondiale attraverso il cibo che i protagonisti mangiano, il gelato all’ananas di Natasha in Guerra e Pace , il «formaggio Italiano», forse parmigiano, che il dottor Livesey tiene nascosto nella tabacchiera e che Jim Hawkins promette all’ex pirata Ben Gunn nell’ Isola del Tesoro, lo stracchino di Renzo in fuga da Milano nei Promessi Sposi , i banchetti degli eroi di Omero, la torta di mele di Sal Paradiso in Sulla Strada di Kerouac. Sarebbe retroscena perfetto del libro di Adam Gopnik In principio era la tavola , Zibaldone sulla storia del cibo e la nostra relazione, biologica, culturale, religiosa con gli alimenti.

Gopnik, americano di origine canadese che scrive per il settimanale The New Yorker, è adatto alla missione, il passato franco-inglese lo espone alla grandeur della cucina di Parigi, senza fargli dimenticare l’immangiabile menu di Londra, mentre le radici europee della famiglia di immigrati lo legano al «cibo povero» del vecchio continente che, come «l’arte povera», coltiva gloria e umiltà.

Gopnik racconta di Rebecca Spang «Meravigliosa scrittrice: ci ha svelato lei gli albori dei ristoranti moderni. Si dice che nascessero dopo la Rivoluzione Francese, quando i nobili persero la testa, e con essa la bocca per mangiare, e i grandi cuochi di famiglia il posto di lavoro, aprendo dunque locali pubblici per sopravvivere. Bellissima storia, ma falsa, i ristoranti esistevano già. Robespierre, puritano incorruttibile, li disprezzava come “rovina della Francia”, lo champagne era per lui “veleno”. “Ristorante”, Restaurant in francese, era solo un “ricostituente”, brodo tonico che si beveva per star bene e sottrarsi alla dubbia cucina delle bettole».

Nel dibattito che oppone Cucina nobile, da laboratorio, schiumata, alla Ferran Adrià, capofila degli chef armati di sifoni e mousse impalpabili a Slow Food, Cucina organica da Chilometro Zero e buone osterie, Gopnik non si schiera. Da una parte ricorda come la cucina francese sia eclettica, raccogliendo ingredienti ovunque, senza scrupoli per le «tradizioni», dall’altra come la «contaminazione» globale del gusto sia la storia stessa del cibo. Il fondatore di Slow Food, Carlin Petrini, recensendo positivamente per queste pagine il ristorante di Adrià qualche tempo fa, convalida Gopnik.

Il lettore troverà spunti perenni di conversazione a tavola dove, come dice il proverbio che avrebbe bene fatto da titolo all’edizione italiana, «Non si invecchia». «Perché – si chiede Gopnik - il polpettone di mia madre non ha uguali? Il sapore non si riesce a duplicare, ne ho la ricetta, ma da quando torno a casa dai tempi del college e lo mangio quel gusto è solo lì. Perché il cibo non è solo un alimento, è il luogo in cui lo assaggiamo, le persone che lo preparano per noi, il nostro modo di sentire mangiando. C’è una ricetta di patate soufflé difficilissima, la tento invano da anni, friggere, rifriggere, quindi buttare l’impasto in olio bollentissimo per l’effetto lievitazione. Bene, i ristoranti alla moda l’hanno ormai scartata, troppo complessa, io per caso, 30 anni fa, in un buchetto della II Avenue di Manhattan, dove la bistecca costava 5 dollari, ho trovato la perfezione del soufflé. Credo che quel cuoco l’abbia avuta per caso, magari scaldando troppo l’olio: eppure l’ha fatto».

Leggere Gopnik è come tirar tardi a cena con un amico: è lecito mangiare carne se poi non mangiamo tutte le interiora? Gopnik pensa «come il londinese Fergus Henderson, la sola moralità sarebbe mangiare occhi, lingua, cervello, cotenna, piedi» e mi fa ripensare ai mercati siciliani da bambino, quando testine di capretto con gli occhi sporgenti, cervello, cuore, intestini, legamenti delle ginocchia di bue, piedini del maiale, erano leccornie: e il critico Raspelli non ha forse definito «il panino con la milza» uno dei migliori bocconi?
Il saggio irride i falsi specialisti, che passano ore a discutere i meriti di un vino «Chateau de Montagne» contro la bottiglia rivale «Chateau Letour», salvo poi magari non riconoscerli al test «cieco». Qui l’autore, malgrado gli anni di Parigi che fanno da base al testo, malgrado il background raffinato (la mamma preparò una volta un soufflé per il filosofo francese Derrida, guru di una generazione) è salvato dalle cene povere sulla II Avenue, quel senso pratico che soccorre sempre i newyorkesi. Alla Columbia University Frank Prial, esperto di vino del New York Times, dava questo consiglio indimenticabile «Una bottiglia che costa 5 dollari non è buona la metà di una da 10, e una da 50 la metà di una da 100. Gustate il vino: quel che vi piace è buono».

Conclude Gopnik «Amo il cibo sofisticato, raffinato, ma una due volte l’anno non di più. E’ come andare a teatro con gli esperti, tu ti godi la Traviata, loro incalzano, sì bella “questa” Traviata, ma vuoi mettere con “quella” Traviata? Invece il cibo di base è il migliore», filosofia che fa considerare ai microfoni di National Public Radio Adam Gopnik «un uomo che ama hamburger e spaghetti». Peccato però, e questo è forse il solo rilievo che si può muovere a In principio era la tavola, libro arguto e colto, che hamburger e spaghetti non siano cibo «semplice», ma al contrario il più complesso e strutturato della Storia.