Invano i filologi della politica internazionale cercheranno nell’intervento del presidente iraniano Hassan Rohani al World Economic Forum di Davos parole che rompano, in modo radicale, con la recente tradizione del suo Paese e che quindi, rilanciate con veleno dagli ayatollah conservatori, gli mettano contro il Leader Supremo Ali Khamenei. Rohani segue alla lettera il protocollo condiviso a Teheran. 

Ma lo sillaba con accattivante bonomia e simpatia, includendo gli astanti nella gentile risata, l’elegante turbante, il mantello senza una piega. Pronunciato così il messaggio muta di senso. Dopo anni di virulenta foga populista del suo predecessore Ahmadinejad, il colto, flemmatico, garbato Rohani invoca l’essenza di quel che c’è di antico, sofisticato nella cultura millenaria dei Persiani, il carisma che rende la potenza non minacciosa, affascinante.

Quando il fondatore del Forum di Davos, Klaus Schwab, gli ha proposto con forza l’invito «Allora l’Iran è pronto a intrattenere relazioni normali con tutti i Paesi?», Rohani ha assentito con cortese gravità mentre la platea dei manager e uomini di stato ruggiva felice la propria approvazione. Purtroppo qui tocca fare i pedanti e segnalare che Rohani intende solo «i Paesi che Teheran riconosce», escludendo quindi Israele, oggetto segreto dell’ovazione. Questa è la «filologia diplomatica» con cui il presidente si scherma dai falchi di casa: il messaggio di simpatia umana prevale, ieri, dalla Svizzera, al web, alle Cancellerie. 

Celebre per il suo handle twitter @hassanrouhani, con 170.000 lettori-follower, Rohani ha ammesso con candore di non scrivere i messaggi da solo, aiutato da collaboratori ed amici. La e-diplomacy, la diplomazia digitale dei social media di cui il nostro ambasciatore a Washington Bisogniero giusto in queste ore discuteva con l’ex vice Segretario di Stato Usa Anne Marie Slaughter, ha conosciuto ieri un giorno di gloria quando, all’offensiva social media di Rohani a Davos, ha replicato secco il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Non da un’affollata conferenza stampa o con un forbito comunicato di agenzia: no, dalla sua pagina Facebook, come un teen ager, Netanyahu denuncia «la campagna di falsità» di Rohani, a cui la platea internazionale presterebbe ascolto, ricordando che su nucleare, Medio Oriente e Siria, la posizione di Teheran non muta. 

Vero, si ripete solo che la «colpa» della guerra civile di Damasco non è del regime di Assad ma «di terroristi feroci», non si spiega bene a che cosa serva il nucleare in un Paese che galleggia su giacimenti di petrolio, a Israele non si porge nessun ramoscello d’ulivo. Ma Rohani sembra tentato da una versione sciita della comunicazione cattolica di Papa Francesco, non mutare un rigo di teoria e tradizione pregresse, ma declinarle con dolcezza, affabilità, cordialità. E non ha forse ieri il Papa definito Internet «un dono di Dio»? 

L’Italia, che con gli uomini dell’Eni ha una storica presenza in Iran dai giorni di Enrico Mattei a Paolo Scaroni oggi, a Davos era guardata, per una volta, con invidia. Tanti politici e businessmen sperano che, se la trattativa sul nucleare e quella sulla Siria procederanno senza troppi intoppi, e Khamenei lascia spazio a Rohuani, Teheran ritorni mercato strategico. Italia ed Eni godrebbero di un vantaggio prezioso, perché Rohani annuncia già il nuovo modello di investimenti per i contratti internazionali sul petrolio per settembre 2014, preceduto da un seminario a Londra, in estate, per illustrarne le modalità. A Davos i dirigenti francesi della Total marcavano infatti stretto gli iraniani.  

«È il tono che fa la musica» dice un antico motto e Rohani annuncia suadente di volere l’Iran tra i primi dieci Paesi al mondo per benessere, si dichiara pronto a collaborare con tutti - dell’ambiguità su Israele s’è detto - se le sanzioni internazionali verranno allentate e poi cancellate. Messaggi per il presidente Obama e il Congresso Usa dove non mancano i dubbi sul nuovo corso di Teheran. 

Finita la Guerra Fredda il web nascente, il mercato internazionale aperto, lo sviluppo dei Paesi poveri fecero sperare che il XXI secolo fosse di pace, intese, prosperità. Poi crisi finanziaria e dell’euro, guerre locali, fondamentalismi, autoritarismo in Russia e Cina, «globalizzazione e mercato» sono diventate parolacce. Ascoltando Rohani proporre cooperazione e lavoro, dal web a Davos tornava in mente che le sole alternative al mercato, con tutti i suoi difetti, alla democrazia, con tutte le sue demagogie, alla cooperazione internazionale, con tutte le lungaggini burocratiche (a proposito: rilanciamo in fretta l’area di libero mercato Europa-Usa!) sono guerra, odio, intolleranza. O lavoriamo, commerciamo e cresciamo insieme o ci scanniamo come in Siria e prepariamo le armi come India e Pakistan sul Kashmir, o Cina, Usa e Giappone nel Pacifico.