A cosa pensa il presidente Donald Trump, nel suo letto d’ospedale al Walter Reed di Bethesda, Washington DC, l’ospedale dedicato all’ufficiale medico che, nell’Ottocento, scoprì come la trasmissione della febbre gialla avvenga via zanzare? A guarire, settantenne ricoverato per Covid-19, sovrappeso, con un rischio fatalità che la medicina stima a 4,5%? Alla sfida temeraria lanciata fino a martedì scorso, “il virus non colpisce nessuno”, o ai 421 milioni di dollari che deve presto restituire, secondo il fisco IRS, con garanzia personale ? Alla strategia di pace per il Medio Oriente che suo genero Jared Kushner guida per lui, e che ha portato al “Patto di Abramo” fra Emirati, Bahrain e Israele? Al fratello minore Robert, cui pare fosse legato, scomparso il 16 di agosto ? Alle folle che, solo pochi giorni fa, lo invocavano, pretendendo la galera per il candidato democratico, l’ex vicepresidente Joe Biden detto “Pisolo”, come il nano di Biancaneve? Al dibattito televisivo, in cui è stato, come mai prima, “Trump”, interrompendo, irridendo, aggredendo il rivale, facendo del povero moderatore Chris Wallace uno zimbello, mentre i suoi familiari e la First Lady, in prima fila, si sfilavano le mascherine, violando le regole sanitarie vigenti, con l’orgoglio con cui un’armata di conquistatori sventola le bandiere strappate ai vinti ? O al party sul prato della Casa Bianca, per festeggiare la nomina imminente della giudice Amy Coney Barrett alla Corte Suprema, impresa che allungherà l’influenza di Trump fino alla seconda metà del XXI secolo?

Era un evento in vecchio stile repubblicano, abiti eleganti, marines, Servizio segreto, saluti, abbracci, pacche sulla schiena, il ministro della Giustizia Barr, trumpiano ultras, immortalato mentre si soffia il naso e poi stringe le mani agli astanti basiti. Background, i giardini ridisegnati dalla First Lady Melania, nello stile draconiano con cui ha decorato il Natale nella magione dei presidenti, anche se adesso sappiamo, dalle registrazioni di una collaboratrice, che lei stessa li detestava. Notabili, senatori, portavoce, i soliti perdigiorno perbene, il reverendo presidente dell’università cattolica di Notre Dame John Jenkins, dove la Coney Barrett ha studiato, l’inner circle trumpiano assiepato senza mascherine o social distancing. Gli epidemiologi ora considerano quella cerimonia “superspreader”, occasione di contagi multipli, che ha lasciato infetti, tra gli altri, almeno tre senatori, indispensabili al leader della maggioranza al Senato Mitch McConnell, e al presidente della Commissione Giustizia Lindsey Graham, per approvare la Coney Barrett. 

Se altri casi venissero confermati nelle prossime ore, il tempo esiguo a disposizione per il voto si stringerà, McConnell ha rinviato le sedute del Senato al 19 ottobre, Graham quelle della Commissione al 12. Si potrà partecipare alla discussione in remoto, ma -spiega il professor Larry Sabato- il voto finale deve essere in persona, al Congresso, nella capitale. Ce la faranno i repubblicani, dopo il voltafaccia che, nel 2016 sospese il giudice Garland, nominato dal presidente democratico Obama, malgrado mancassero ancora 9 mesi al voto, a nominare un giudice a una settimana dalle elezioni? E, ove Biden vincesse il 3 novembre, avranno la “chutzpa”, la faccia tosta senza precedenti storici, di votare nell’interregno prima della inaugurazione di gennaio?

Washington non discute d’altro, mentre gli invitati moltiplicano i tamponi, un’app prova a verificarne gli incontri successivi e il derelitto reverendo John Jenkins di Notre Dame è positivo e 200 studenti, in una mozione, ne rivendicano le dimissioni per aver trascurato le regole dell’ateneo da “ipocrita” .

A cosa pensa dunque il presidente, dopo un tweet affettuoso dedicato al personale sanitario di Walter Reed, tra i migliori al mondo ma parte di quella sanità pubblica Usa che ha sempre avversato, in pubblico e in privato, e uno in cui auspica l’approvazione dello stimolo economico in Parlamento, bloccato finora dal suo partito e al videomessaggio rassicurante in serata?

Per provare dunque a immaginare cosa davvero possa passare per la testa del presidente, precipitato in 24 ore dal tetto del mondo al letto di un ospedale per una malattia la cui minaccia ha sempre negato, ho telefonato a Mr. G. un imprenditore che ha a lungo vissuto a Trump Tower, New York, Fifth Avenue, a pochi piani dalla suite casa di Trump. È un uomo affabile, di successo, con le mani in pasta in mille affari di Manhattan, legato all’Italia da contratti e relazioni, che di Trump è uno dei pochi amici intimi, e che non sfoggia, fatto ancora più insolito nel giro, il rapporto per vantaggi personale. La sua risposta, dopo i convenevoli tra newyorkesi in tempi Covid, è sorprendente: “Te lo dico io, paesano, cosa pensa Donald. Non a quello che avete in mente voi giornalisti, o i suoi compagni di partito, e neppure i democratici che non voterò e spero perdano, malgrado i sondaggi. Pensa una cosa che gli italiani capiranno: “Ma chi me l’ha fatto fare? Potevo essere a Mar a Lago, in Florida, a svernare al mio residence, ero popolare, anche se stavo in debito la tv mi creava fiumi di cash, contante, per andare avanti, ho già passato la bancarotta e sono risorto. Che vantaggio avrebbero i creditori a pignorarmi e rovinarmi, sanno che li ripago. Mi ero candidato e nessuno mi dava una chance, dopo 4 anni, l’impeachment, le tasse in piazza, l’economia distrutta dal virus, le liti con il dottor Fauci sulla pandemia, mi ritrovo qua: chi me l’ha fatto fare?”.

Non so se Mr. G., malgrado la familiarità con Trump, abbia ragione, può darsi, da vecchia volpe, che mi “spin”, mi dica qualcosa per aiutare ancora, come può, il sodale, eppure coglie un filo di verità. Se illustri analisti, politici amici e no, leader stranieri -tranne la saggia Angela Merkel- hanno patito le offensive di Trump, è perché si ostinano a giudicarlo con il metro classico, delle aspettative razionali direbbero gli economisti, come fosse Reagan o Clinton, Bush figlio o Obama, capaci di calcolare profitti e perdite in ogni negoziato. Non Trump, la sua strategia del caos lo porta, ogni volta, a raddoppiare la posta, qualunque carta abbia in mano, fiducioso che, se sconfitto, si indebiterà, con il banco e con il destino, ripartendo in una nuova avventura.

Preparandolo per il dibattito testa a testa con Biden, il 29 settembre, l’ex governatore del New Jersey Chris Christie, gli ha raccomandato, sgolandosi, di apparire “presidential”, moderato, non dar sulla voce a Biden, attaccarlo sì sul figlio Hunter, coinvolto in affari controversi in Ucraina, ma rispettando il figlio maggiore Beau, veterano decorato dell’Iraq e autorevole Attorney General, scomparso prematuramente. Christie è un classico esempio della considerazione che Trump ha per i collaboratori, gruppo disordinato e senza regole -degli ultimi tre campaign manager, Manafort, Bannon e Parsdale, i primi due sono in galera, il terzo arrestato in Florida per avere minacciato la moglie in armi.

Considerato, da governatore del New Jersey repubblicano in odore di Casa Bianca, primo a battersi per il candidato imprenditore, Christie si attendeva dopo la vittoria 2016 un posto al governo, la direzione del partito, almeno un’ambasciata di rango. Non conosceva, al contrario di Mr. G., le regole inflessibili di casa Trump, descritte dalla ostile nipote Mary, figlia del fratello maggiore del presidente, Fred jr. in uno spietato libro di memorie. Quando era ancora magistrato, Christie mandò in prigione Charles Kushner, padre di Jared, lo sposo della figlia prediletta Ivanka Trump, colpevole di evasione fiscale, corruzione politica e perfino di aver assoldato una prostituta, per ricattare il cognato e farlo cedere in una disputa patrimoniale. Il giovane Kushner volava ogni settimana dal padre, per visitarlo dietro le sbarre al penitenziario federale dell’Alabama, e non ha mai dimenticato l’umiliazione. Christie venne, senza cerimonie, mollato nel dimenticatoio finché, nella turbolenta campagna 2020, con tanti a abbandonare la nave a rischio, non è stato richiamato. Il fato continua a non essergli amico, prima Trump ha ignorato i suoi consigli al dibattito, ridicolizzandolo, poi lui stesso si è contagiato col Covid, che i collaboratori si son passati l’un l’altro, come una maledizione da Streghe nel Macbeth shakesperiano.

Se la cavi presto dalla malattia che ha avuto in America oltre sette milioni di casi e fatto 208.000 vittime anche per la dissennata gestione del governo, come gli augura in un tweet il suo predecessore Barack Obama, venga o no rieletto a novembre, Trump resterà Trump, chiunque si illuda del contrario sbaglia. La statistica, come la medicina, è scienza empirica, che evolve dagli errori. Nel 2016 non previde lo 0,6%, i 78.000 voti su 138 milioni, decisivi per Trump e ha dovuto rifare tutti i campioni Usa, allargandoli agli elettori bianchi senza laurea, sottostimati, che diedero, invisibili ai radar degli algoritmi, il successo ai repubblicani. Dal 1996, Clinton contro il senatore Bob Dole, nessun candidato è mai stato indietro per l’intera campagna senza poi perdere. Biden è avanti di almeno 8 punti nazionalmente e anche in Pennsylvania ha lo stesso vantaggio, battendosi bene in Ohio e Florida, stati cruciali per Trump/.

Vedremo, fra 30 giorni, se la statistica è migliorata in quattro anni o se, anche stavolta, la strategia del caos di Trump, pur con il campione atterrato dall’epidemia, vincerà. Qualunque cosa accada, Mr. G. non ha dubbi “Credimi, Donald resterà Donald. Il 4 novembre, se battuto, si metterà in giro, con Jared al fianco, a negoziare contratti per un talk show, un libro best seller, il varo di una rete media-politica, stile Fox news ma che parli alla base dura, milizie alla Proud Boys e complottisti di QAnon non esclusi. L’ultima volta che gli ho parlato mi ha detto…” ma questo per ora è off the record e ci sarà tempo per raccontarvelo.