I G20 non sono più quelli di una volta, eleganti parate in cui i leader controfirmavano accordi redatti da felpati diplomatici. 

L’ultimo, a Hangzhou in Cina, è cominciato con il protocollo di Pechino, impeccabile dai tempi di Confucio, che non ha steso il tappeto rosso per Barack Obama, ha bloccato la Consigliera per la Sicurezza Nazionale Susan Rice, mentre un funzionario urlava: «È il nostro aeroporto, il nostro paese!», obbligando il presidente a scendere dal portellone merci. Ed è finito con il presidente filippino, Rodrigo Duterte, a definire Obama «figlio di p…», scontento per le pressioni sulla lotta al narcotraffico. 

Obama ha minimizzato «banali equivoci all’arrivo… e Duterte è un tipo bizzarro», ma la flemma non maschera l’esito del G20. Le relazioni con la Russia, malgrado un’ora e mezzo di colloquio con il presidente russo Vladimir Vladimirovič Putin, sono gelide e nessun accordo sulla Siria verrà raggiunto fino a gennaio e al nuovo presidente Usa, neppure un corridoio umanitario per i civili assediati ad Aleppo. «Manca la fiducia» ammette Obama, riconoscendo il fallimento del «reset» con Mosca, sognato quando spedì, ingenuamente, la segretario di Stato Hillary Clinton a ricucire con la Russia. Putin tiene duro a Damasco, il dittatore Assad bombarda i ribelli e non Isis (fonte Isw) e ordina la mobilitazione sul fronte ucraino, chiacchierando fitto fitto con l’uomo forte turco Erdogan durante la foto di rito, mentre Obama li guarda stupefatto. L’attività di cyberspionaggio russa sulle elezioni Usa prosegue indisturbata, terrorizzando intelligence e Casa Bianca. 

Il presidente Xi Jinping s’è rivelato assai meno amichevole del predecessore Hu Jintao. Malgrado una diffida precisa di Obama, Xi ha spedito alla vigilia del G20, una squadra navale con quattro mezzi della Guardia Costiera e sei d’appoggio nello Scarbourogh Shoal, area contesa dalle Filippine, dove Pechino vuol creare l’ennesima isola artificiale. Insomma, il celebrato «pivot», la svolta verso l’Asia di Obama è fallita. «Sono il primo presidente del Pacifico» aveva annunciato, vanteria già cara al vecchio Richard Nixon, ma, come per tanti suoi sogni, la realtà l’ha sorpreso negativamente. 

Come nota Mike Green del Center of Strategic and International Studies http://goo.gl/xyfWh3 Obama è partito nel 2009 dicendosi pronto ad accettare «gli interessi cinesi in Asia», spaventando Giappone, Australia e Vietnam, salvo poi - mentre Pechino incoraggiata armava una flotta d’alto mare per la prima volta dai tempi dell’Impero - mandare truppe in Australia. Con improvvisa marcia indietro, Obama, dopo il fallito raid in Siria 2013, provava a ricucire plaudendo al «Nuovo modello di relazioni tra le grandi potenze« di Xi Jinping, condominio sulle rotte commerciali che Washington presidia dal 1945, salvo vedersi costretto al pericoloso tackle navale nel Mar Cinese Meridionale con le squadre cinesi. 

Era, purtroppo, troppo tardi perché le difficilissime relazioni Washington-Mosca-Pechino ripartissero dall’ultimo G20 di Obama e leggeremo presto nelle memorie che il Presidente si appresta a scrivere - contratto pronto, 45 milioni di euro - la sua versione dei fatti. Il lettore non concluda però che il summit di Hangzhou sia stato inutile. Le grandi potenze non hanno ritrovato intesa, ma almeno i leader hanno, tardivamente, concordato sull’ondata di scontento che dall’America di Trump alla Pomerania di Merkel squassa il mondo: va affrontata, prima che degeneri in guerra e violenze. Il segretario del Tesoro Jack Lew loda il consenso su investimenti internazionali per creare lavoro. I patti di libero scambio, Tpp nel Pacifico, Ttip nell’Atlantico, restano impopolari, ma si deve però metter fine alla stagione segaligna dell’austerità. Il ministro tedesco Schauble, cavaliere dell’austerity, è stato criticatissimo a Hangzhou, con il premier australiano Turnbull a invocare «un capitalismo civile» e Xi a decretare «la vecchia strada della politica solo fiscale e monetaria è morta», con tagli annunciati su acciaio e carbone. 

Xi Jinping, Putin e gli europei dopo Brexit attendono il nuovo inquilino della Casa Bianca, la favorita Clinton o l’imprevedibile Trump. Fino ad allora tutti cercheranno gli ultimi vantaggi nei tanti vuoti lasciati dal carismatico Barack Obama.