Non volevo andare in quel 1987 al Festival di Sanremo, lavoravo a un’inchiesta per questo giornale sull’Aids, ma il direttore Scardocchia non ascoltò neppure le mie perplessità e, per darmi una lezione, mi mandò per fax i reportage di Lietta Tornabuoni e Sandro Viola dall’Ariston, come a dire «Sono andati quegli assi, potrai bene andar tu».

Andai e furono bellissime giornate, cantare «Ma dove va a finire il cielo...» sul palco alle prove con Fausto Leali, chiacchierare con Morandi, cene con Mollica, «la» Venegoni, Duiz, Michele Serra, i veterani.
Il ricordo indimenticabile fu l’arrivo di Whitney Houston, bellissima, bravissima, dolcissima, gentile. Con lei la mamma onnipresente, Cissy, corista nella Chiesa Battista del ghetto di Newark, che in quel 1963 - anno di nascita di Whitney - bruciava e bruciò per cinque anni contro il razzismo - e il papà, manager del clan. In famiglia un’altra grande cantante nera, la cugina Dionne Warwick, ma quando Whitney venne a chiacchierare ai tavoli di noi cronisti, stufi di Nada e Toto Cutugno, né papà e mamma, né la periferia del New Jersey, né la gloria di Dionne più contarono.

C’era solo lei, il volto sensuale e puro, la voce che spaccò il teatro, la cortesia e la pazienza, l’arguzia nel paragonare il glorioso Festival «a quella che da noi è la Budweiser Fair», sagra della birra più popolare d’America. «Nippy» la chiamavano tutti, ci spiegò che credeva «In Dio e nella famiglia, perché quando perdi tutto solo loro ti restano», e la fede battista suonava tra i lustrini del Festival e in quella ragazza così adolescente e bella invocata in Gloria, non in penitenza. Vennero poi i matrimoni sbagliati, le botte, gli stupefacenti fino alla morte di ieri, senza vicino nessun familiare, con i tranquillanti su cui, come per Amy Winehouse, come per Michael Jackson, lo show business infierirà fino a stuccare il pubblico.
Allora i repubblicani del suo paese condannavano la musica pop e rock come «antireligiosa» ma Whitney, ammaliandoci tutti, ci disse di considerare canto e bellezza «Doni divini»: «Sono cristiana e lo resto, la mia vita è davanti al pubblico, voglio dare feeling, emozione. Sono cool, distaccata in scena, ma piena di passione. L’equilibrio tra passione e ragione è la chiave della mia musica».

Negli appunti di allora leggo: «Porta sulla volgarità di Sanremo la grazia del Beato Angelico… è talmente sottile da sembrare filigrana...». Alla luce del tempo il disegno della filigrana rivela i tormenti che non sapemmo vedere, nascosti dalla grazia musicale di Whitney. I demoni che l’Angelo scacciava dipingendo, infine, l’hanno ripresa come nei roghi di Newark. Stava per andarsene quando, vergognandomi come un cane, ero in fondo un inviato non troppo ragazzo, le chiesi: «Mi farebbe l’autografo sulla sua foto, è per mio fratello». «Certo - sorrise Whitney Houston -, come si chiama?». Arrossendo dissi «Gianni Riotta», e quel ricordo in un cassetto è oggi carissimo per «The greatest love of all...», per «I wanna dance with somebody… somebody who loves me...». Credeva in Dio e nella famiglia, è morta ieri e solo lei sa se davvero da sola.